PERCHÈ IL CASO LORO PIANA NON È SOLO LA STORIA DI UN MAGLIONE DI CASHMERE: IMMIGRAZIONE, GLOBALIZZAZIONE E LE CONTRADDIZIONI DIFFICILI DA RISOLVERE.
La crisi in cui si dibatte il mondo occidentale nasce anche dalla difficoltà di dirsi la verità rispetto a problemi estremamente complessi. Da due casi particolari nasce un interrogativo generale
Recentemente la magistratura italiana è intervenuta decretando l'amministrazione giudiziaria di Loro Piana, maison del lusso controllata dal gruppo francese LVMH, perché non avrebbe controllato la filiera produttiva, alimentando un sistema colposo di sfruttamento nei confronti dei lavoratori. Questo caso non è isolato, in quanto medesimi provvedimenti, cioè la supervisione di un giudice affinché il problema venga rimosso, erano stati presi anche verso Armani Operations, Dior, Valentino, Alviero Martini.
Quanto stanno facendo queste società del lusso si configura come sfruttamento, poiché gli elevati prezzi a cui vendono i loro prodotti permetterebbero di avere costi dei fornitori superiori senza che i margini siano sostanzialmente ridotti. Ma anche in altri settori l'intero sistema di lavorazione è totalmente nelle mani di strutture simili, e cioè di lavoratori immigrati gestiti in larga parte attraverso un sistema di caporalato, che fornisce la manodopera alle nostre aziende. Questo avviene prevalentemente oggi nell'agricoltura, sappiamo per esempio che la raccolta dei pomodori è gestita in questo modo, ma anche alcuni aspetti della lavorazione dei vini nel Nord Italia, o la mungitura che viene fatta prevalentemente da lavoratori indiani. Tuttavia non è una situazione solo italiana, ma riguarda in maniera più o meno ampia tutti i paesi sviluppati: ad esempio negli Stati Uniti in agricoltura lavorano 7 milioni di immigrati in gran parte irregolari.
Queste situazioni avvengono prevalentemente in settori a basso margine come l’agricoltura, dove l'automazione è difficile, e quindi la riduzione del costo del lavoro è l’elemento essenziale per competere per le aziende, ma se ne giovano anche i consumatori, che possono ottenere prezzi estremamente bassi per prodotti di largo consumo e che in molti casi, come il latte, sono dei prodotti di prima necessità.
In tutto ciò è evidente la contraddizione che stiamo vivendo e che non viene invece dichiarata: si parla giustamente di combattere l'immigrazione illegale, che ha l'effetto di creare all'interno del paese aree fuori controllo spesso governate dalla malavita. Tuttavia questo giusto rifiuto non viene collegato ai vantaggi che alcuni settori stanno godendo - ed anche i consumatori ne vengono favoriti -, e non si menziona il fatto che queste situazioni sono totalmente conosciute sia dalle forze dell’ordine sia dalla pubblica opinione, ma sono diventate silenziosamente accettate, anche dai governi che predicano la lotta all’illegalità.
Più in generale sta emergendo l’opinione, corretta, che l’immigrazione genera un difficile processo di integrazione, soprattutto delle seconde generazioni, ma è evidente che, senza un’enorme crescita dei flussi migratori in entrata, alcune attività economiche non troverebbero lavoratori a causa dell’enorme calo demografico italiano.
È evidente che queste tematiche non hanno una facile soluzione, ma pochissimi ne evidenziano le contraddizioni; e soprattutto appare chiaro che il mondo occidentale non sembra disposto ad un'analisi sincera della complessità a cui ci troviamo di fronte. Questo permette di trasferire le responsabilità su capri espiatori esterni e ad assolverci dalle nostre responsabilità, senza affrontare i costi necessari per risolvere i problemi. La crescente adesione verso i partiti populisti, che esplicitamente utilizzano questa tecnica, è proprio il risultato dell'incapacità della politica, degli intellettuali, ma soprattutto di tutti i cittadini di confrontarsi con la verità. Ci manca la consapevolezza di sapere che vi sono dei problemi che non hanno una soluzione che possa accontentare tutti.
Dal mondo del lusso, affrontiamo un’altra contraddizione della cosiddetta fast fashion, in particolare con la relazione a certe attività svolte nei paesi in via di sviluppo.
Il Bangladesh è diventato negli ultimi quarant’anni il principale produttore mondiale di prodotti tessili, e in particolar modo di abbigliamento. Già negli anni Settanta il Paese aveva sviluppato un’industria tessile di proprietà dello Stato, e quindi acquisito competenze specifiche nel settore. Le aziende statali hanno rivelato scarsissime doti imprenditoriali e sono fallite, ma sono nate imprese private con capitali locali e, soprattutto, il Paese ha attratto investimenti esteri dalla Cina e dal mondo occidentale, che hanno avviato produzioni tessili, in particolare di quello che è definito ready-made garments (RMG).
Si tratta di prodotti di abbigliamento largamente utilizzati in tutto l’Occidente e distribuiti dalle principali catene del fast fashion – Zara, H&M, Benetton, Uniqlo – e anche da grandi gruppi cinesi, che coprono il mercato asiatico e stanno invadendo quello americano. Sono prodotti a costi irrisori, con tessuti spesso di bassa qualità e in larga parte sintetici, che hanno totalmente cambiato la moda nel mondo occidentale. I modelli, infatti, seguono l’evoluzione delle tendenze e permettono di avere guardaroba molto ampi, fatti di prodotti che possono essere cambiati, e dismessi, senza soluzione di continuità.
Il modesto prezzo finale è consentito dal bassissimo costo della manodopera nel Bangladesh, dove il settore si è sviluppato anche grazie a condizioni di lavoro terribili, sia per la quantità di ore lavorate sia per le tutele inesistenti; all’inizio, infatti, il settore ha a lungo impiegato ragazzi e bambini, sfruttandoli. Inoltre, il Bangladesh è riuscito a ottenere accordi internazionali estremamente favorevoli, che hanno permesso di esportare i suoi prodotti in tutti i Paesi senza alcun dazio. Tali accordi sono stati di fatto sospinti dall’interesse dei grandi operatori internazionali e, in fondo, anche da quello dei consumatori occidentali. Le più che precarie condizioni di lavoro hanno provocato ripetuti incidenti nelle fabbriche, sino a quello al Rana Plaza del 24 aprile 2013, quando un edificio commerciale crollò a causa dei macchinari tessili troppo pesanti ammassati senza alcun rispetto delle norme di sicurezza, causando la morte di 1.136 persone e il ferimento di 2.438, tutti operai al lavoro per le più importanti marche internazionali. Questo gravissimo episodio ha attirato l’attenzione del mondo sulla drammatica situazione delle produzioni tessili in Bangladesh e ha permesso un lieve e graduale miglioramento imposto dalle stesse grandi case che avevano dislocato lì le loro produzioni, anche per timore del giudizio dei clienti e per l’intervento del governo bengalese e delle organizzazioni internazionali, che stanno spingendo verso norme e condizioni di lavoro meno disumane.
Questo filmato illustra la situazione. I lavoratori del settore (oltre cinque milioni) sono prevalentemente donne, provenienti da zone rurali, senza alcuna formazione e spesso analfabete, che così possono garantire a loro stesse e alle loro famiglie un reddito, per quanto minimo: sempre meglio dell’indigenza totale in cui si trovavano. Ma c’è un altro problema non trascurabile legato alla produzione tessile: l’enorme mole di vestiti prodotti crea una mastodontica quantità di scarti, molto inquinanti per la presenza di fibre sintetiche.
Numerosi finiscono nel deserto di Atacama, diventata una delle zone più inquinate del mondo, come si può vedere qui , mentre una parte finisce nei mari riempiendoli di microfibre che sono nocive.
Penso che si debba premere per migliorare le condizioni di lavoro in quel paese, ma anche essere coscienti che questa situazione è, per loro, migliorativa rispetto al passato e che anche nel mondo occidentale lo sviluppo industriale ed economico è avvenuto con periodi estremamente duri per i lavoratori. È giusto fare una battaglia perché ciò cambi, ma anche capire che questo non può non portare ad un cambio dei nostri stili di vita: accettando prezzi superiori per quei prodotti e riducendone il consumo, se vogliamo davvero non alimentare l’inquinamento del mondo. Non serve scandalizzarci se non si cambiamo i nostri comportamenti e non accettiamo i costi per rendere lo scarto dei vestiti non inquinante.
Questi due esempi, e in particolare il primo, mostrano che il mondo sviluppato ha di fronte a sé dei problemi difficili, anche frutto del suo successo, ma non li sa affrontare, perché evita di accettarne proprio la complessità e preferisce ricercare i capri espiatori da colpevolizzare.
E’ giusto chiedersi se questa incapacità voglia nei fatti già indicare una scelta: e cioè che anche in questo campo, come sta avvenendo nella nuova geopolitica mondiale, dobbiamo riconoscere che ciò che conta è l’interesse individuale o di una collettività, accettando l’ingiustizia, mentre nelle parole e nei sentimenti di indignazione rimane solo il sapore del passato .
Un passato costruito nei decenni del dopoguerra e maturato quando le condizioni materiali e sociali miglioravano per tutti nel mondo occidentale, ed era più facile trovare spazio per sentimenti e gesti concreti che fossero inclusivi per gli altri, anche a costo di qualche sacrifico personale o collettivo. Chi è sufficientemente “anziano” non può non ricordare questo processo, certamente virtuoso, che ha portato a parlare e teorizzare il diritto internazionale, gli aiuti internazionali, cioè valori universalistici che superano l’identità di un singolo o di una collettività. Oggi tutto questo sta cadendo rapidamente come un domino e personalmente mi chiedo se la crisi di questa cultura proviene, come alcuni hanno già indicato, dal fatto che è stata promossa da coloro che appartengono alla fasce economiche culturali più elevate, e che hanno spostato la loro cittadinanza dalla realtà locale ad una appartenenza internazionale, proprio perché la loro condizione culturale e interesse economico personale lo permettevano, e non si siano accorti che molta parte della popolazione non li stava seguendo, in quanto viveva una realtà socio economica diversa dalla loro, e soprattutto non stava più godendo della prospettiva di miglioramento economico e sociale che ha caratterizzato i decenni precedenti.
E in più questa visione è stata “imposta” attraverso un senso di “politicamente corretto” da cui non ci si poteva scostare. Ora il tema è come ricomporre una società occidentale così divisa.
La mia tesi è che senza una ricomposizione economica sarà difficile farlo solo sul piano culturale.
Ogni vostra riflessione su un tema così controverso è utile e … BUONE VACANZE.
Caro Luciano,
Mi trovi d’accordo al 100% ma se ci pensi bene il cuore della criticità sta nel fatto che il modello capitalista si è rivelato fallimentare non solo da un punto vista di economie ma anche dal punto di vista sociale poiché ha impiantato nelle persone l’idea che chi fa da sé fa per tre. E non è così perché siamo membri di comunità, ci siamo evoluti perché ci siamo uniti e abbiamo cooperato (come ci spiega largamente Yuval Harari). Ma ora è in atto un’involuzione e se dobbiamo pensare se lottare per i diritti dei lavoratori stagionali oppure se preferiamo pagare meno i pomodori beh il dubbio sembra quasi non porsi nemmeno… in altri paesi, come la Francia, dove il sistema di welfare è da sempre più solido così come la coscienza politica e civica delle persone e il loro senso di comunità, fenomeni come il caporalato sono molto meno diffusi e soprattutto socialmente condannati senza appello. Certo, in Francia esiste anche un salario minimo però …come dire che la coperta non è così corta forse.
Condivido comunque in linea generale l’inquietudine per la scelta epocale che si pone ora dal punto di vista etico ed il cui esito ricadrà sui nostri figli e nipoti e devo ammettere che ho ben poche speranze…con stima. Viviana