L’altra faccia del problema dei dazi: i flussi di denaro che hanno reso il mercato americano il più finanziarizzato del mondo
Cosa è la supremazia del dollaro e perché il mercato finanziario americano è gigantesco e influenza il mondo intero
La supremazia del dollaro è un tema in cui si parla sempre più frequentemente negli ultimi tempi; l'obiettivo di questa nota è quello di chiarire cosa significhi questa supremazia, quali siano le cause e perché il mercato finanziario americano influenzi l'intera economia mondiale.
Gli Stati Uniti hanno da oltre quarant'anni un sistematico e costante deficit commerciale, cioè surplus di importazioni superiori alle esportazioni. Questo surplus è significativo, perché è stato mediamente superiore al 2% del PIL americano, ma è cresciuto negli ultimi anni, superando regolarmente il 3%.
Questa situazione è estremamente rilevante per l’economia mondiale ed ha alcune cause principali:
L’attività manufatturiera ha perso rilevanza nell’economia americana, a causa anche all’enorme competitività dei paesi asiatici.
Molte aziende americane hanno decentrato la produzione in paesi in via di sviluppo dai quali esportano direttamente verso il resto del mondo; un caso fra tutti è quello di Apple che produce quasi totalmente al di fuori degli Stati Uniti.
Gli americani hanno un tasso di consumo del proprio reddito fra i più alti del mondo, cioè consumano molto e risparmiano poco, alimentando così una domanda che viene colmata dai paesi esportatori, anche grazie al fatto che il dollaro ha un cambio elevato, che favorisce l’acquisto di prodotti importati low cost.
Infine alcuni paesi, Cina e Messico in primis, hanno realizzato politiche interne che favoriscono le esportazioni, spesso a scapito dei salari e dei consumi interni.
Cina, Messico e Germania sono i principali esportatori verso gli USA, che hanno comunque un deficit commerciale anche con gran parte degli altri paesi del mondo.
Questa situazione “particolare” può spiegare perché Trump ha messo al centro della sua politica economica la riduzione del deficit utilizzando lo strumento dei dazi. La discussione sugli effetti di questa scelta è al centro del dibattito con prevalenza di scetticismo sui suoi risultati. Infatti, nel breve i dazi riducono l’attività economica mondiale, poiché comprimono i consumi americani e le esportazioni degli altri paesi; e l’obiettivo finale dovrebbe essere quello di permettere alle aziende americane di essere più competitive, sostituendo quindi le importazioni, e di spingere le aziende straniere a spostare negli Stati Uniti parte della loro attività produttiva. Difficile dire se questo avverrà, anche perché è poco probabile che le aziende facciano degli investimenti con la sola protezione dei dazi - che potrebbero essere tolti in futuro - e rendere quindi questi investimenti non sostenibili rispetto alla concorrenza internazionale.
Il tema dei dazi ha però fatto emergere l’altra importante faccia della medaglia, la cui problematicità è stata finora presa in seria considerazione solo da pochi economisti ed intellettuali.
Il flusso di merci e servizi verso gli Stati Uniti ha come contropartita un flusso opposto di dollari, necessari a pagare tali importazioni verso i paesi esportatori; questo secondo flusso è alla base del predominio del dollaro nel mondo per le seguenti ragioni:
I dollari ricevuti dagli esportatori vengono in generale cambiati in moneta locale dalle aziende presso le banche commerciali e centrali , le quali tendono a mantenere questo surplus di dollari per evitare una svalutazione della moneta americana che renderebbe le esportazioni meno competitive.
Inoltre, i paesi esportatori in via di sviluppo devono finanziare le proprie aziende e il debito pubblico in dollari, perché la loro moneta è ritenuta troppo volatile dai risparmiatori internazionali che li finanziano: pertanto questi stati sono di fatto obbligati a tenere ingenti riserve in dollari per coprire il rischio che i creditori internazionali perdano fiducia nel paese e non rinnovino i loro crediti. La crisi del debito messicano del 1982 e delle “tigri asiatiche “ del 1997 sono state un duro insegnamento per tutti i paesi in via di sviluppo, obbligandoli a mantenere importanti riserve in dollari.
Questi fattori hanno creato il predominio del dollaro: cioè una moneta forte nei cambi, poco volatile, dominante nelle transazioni internazionali. Ma soprattutto una moneta molto abbondante, tenuta come riserva, che viene utilizzata per essere investita nel mercato americano, sia per finanziare il debito pubblico, sia investimenti mobiliari o immobiliari nel mercato privato.
Infatti il debito pubblico statunitense è cresciuto continuamente, sino ad arrivare a superare il 120% del PIL e oltre il 30% è posseduto dai principali paesi esportatori verso gli Stati uniti, cioè Cina e Giappone. Questa elevata domanda ha permesso di mantenere i tassi di interesse di tale debito molto bassi.
Una parte importante di questo surplus di dollari è anche andata nel mercato privato dei beni d’investimento ( “asset”), cioè ad acquisire azioni e verso il mercato immobiliare, e più in generale verso ogni tipo di fondo d’investimento; in particolare gli operatori finanziari , cioè gli intermediari del risparmio degli investitori, continuano ad ampliare il mercato finanziario investendo in ogni tipo di asset: aziende private, materie prime e ogni altro bene che possa generare reddito, come i diritti sportivi e quelli musicali.
Tutto questo ha reso il mercato finanziario americano il più grande e più sofisticato del mondo, aumentandone continuamente l’attrattività, come ha mostrato un recente studio dell’economista Brad Sester. Dopo questa prima ondata di investimenti esteri dei paesi esportatori, un crescente flusso di risparmio privato internazionale si è diretto verso il mercato americano che è diventata una cassaforte percepita come sicura e remunerativa.
Gli Stati Uniti sono il paese che ha il più alto tasso di innovazione, e quindi vi si trovano le principali aziende che oggi dominano il mercato azionario. L’insieme del valore di Amazon, Google, Nvidia, Meta, Apple, e Microsoft è pari a circa 16 trilioni (16 mila miliardi) di dollari, cioè circa il 15% del PIL mondiale. Ma l’attrattiva è anche legata agli ottimi ritorni che provengono dall’incremento dei valori di tutte le aziende e degli immobili, dovuti a questo flusso di denaro che ne fa salire i prezzi permettendo criteri di valutazione molto più alti rispetto al resto del mondo e generando uno degli effetti principali del processo di finanziarizzazione descritto nel mio libro, e cioè la crescita di valore degli asset a causa dell’eccesso di domanda da parte del risparmio mondiale.
Mi permetto qui una “nota di colore”: chi non avesse una quota importante dei propri risparmi investiti negli Stati Uniti dovrebbe interrogare il proprio gestore per comprendere questa anomalia.
Quanto descritto ci deve rendere consapevoli che i flussi di denaro sono i principali influenzatori dei prezzi dei beni d’investimento, e che tali flussi sono controllati da poche decine di operatori che gestiscono una parte rilevante del risparmio mondiale. Andare contro di loro, facendo altre scelte, anche per buoni motivi etici, non ha alcune speranza di offrire ritorni finanziari comparabili, e rende quindi tali tentativi impraticabili.
Nel mio libro spiego come gli USA abbiano un mercato dei beni d’investimento finanziari e immobiliari che è oltre il 40% del valore degli asset totali mondiali, mentre la loro economia è circa il 25% del PIL mondiale.
La gran parte di questo mercato è gestito da intermediari (banche, fondi mobiliari e immobiliari, assicurazioni) la cui attività vale quasi il 20% del PIL statunitense, impiega circa il 5% dei lavoratori e produce utili ben superiori al suo peso nell’economia. Se ne deduce che è un settore molto profittevole, con remunerazioni assai elevate e soprattutto molto potente nell’influenzare le politiche governative.
Questo quadro di riferimento spiega il senso di quello che viene chiamato “dominio del dollaro”, ma anche che l’andamento del mercato finanziario americano influenza l’intero risparmio mondiale. La grande crisi finanziaria del 2007/2008 si è generata negli Stati Uniti per l’eccessivo rischio di alcuni investimenti e lo scoppio della bolla finanziaria da essi creata, ma si è espansa in tutto il mondo, causando una forte recessione proprio per la dipendenza che tutto il mondo finanziario mondiale ha verso quel paese.
La situazione fin qui descritta si protrae da decenni ed è quindi notissima; tuttavia, non ha mai attratto serie attenzioni di economisti, intellettuali e politici. È stata interpretata come l’applicazione delle teorie dell’economista David Ricardo sui vantaggi comparati che portano i paesi a specializzarsi nelle attività in cui hanno un vantaggio; tuttavia la novità sta nella dimensione del fenomeno che ha reso gli Stati Uniti importatore di beni da tutto il mondo ed esportatore di “dollari”, che sono il principale asset finanziario del pianeta ed è sostenuto da tutti i beni mobiliari e immobiliari che i gestori patrimoniali americani comprano negli Stati uniti, ma anche altrove.
Solo pochi commentatori hanno dedicato una attenzione critica a questo fenomeno, ritenendolo nel lungo temine insostenibile.
Il più attivo, in questo piccolo gruppo, è Michael Pettis, professore americano che vive e insegna in Cina da ormai molti anni, il quale sostiene che questa situazione sia dovuta ad alcune anomalie: da un lato le politiche dei paesi esportatori che reprimono i salari interni e offrono vantaggi dello stato per rendere le loro esportazioni competitive; dall’atro l’eccesso di consumo degli americani favorito da un dollaro forte, dal crescente deficit pubblico e dall’indebitamento privato, grazie alle disponibilità finanziare offerte dai paesi esportatori che reinvestono i loro dollari sul mercato americano, generando un credito “facile” sia per lo Stato che per le famiglie.
Queste tesi sono state riprese recentemente da economisti vicini all’amministrazione Trump, come Oren Cass e Stephen Miran, che sono i teorici della sua attuale strategia sui dazi e che auspicano non solo una riduzione delle importazioni americane, ma anche la fine del predominio del dollaro come moneta di riserva mondiale e favoriscono una sua svalutazione e una riduzione dell’afflusso di investimenti sul mercato americano, i quali generano, secondo loro, una crescita del valore degli asset che non va nell’interesse del cittadino medio (che non vive di investimenti finanziari, ma del suo stipendio).
È quindi importante rilevare come questo tema oggi sia balzato al centro dell’attenzione a causa delle proposte dell’amministrazione Trump e sia stato solo considerato finora da pochi economisti “non ortodossi” e con inspirazione culturale prevalentemente di destra.
L’economista, premio Nobel, Paul Krugman, ancora recentemente negava la validità di queste tesi ritendo l’attuale situazione non inusuale e sostenibile, mentre un altro economista di “sinistra” Thomas Piketty lo faceva propria, ma in modo parziale, in un recente articolo su Le Monde.
La situazione che si è creata non ha probabilmente un’unica causa e i vari economisti tendono invece a dare peso quasi univoco alla propria posizione. Certamente l’origine del deficit commerciale nasce dall’effettivo vantaggio competitivo della Cina e di altri paesi esportatori, e queste importazioni a basso costo hanno giovato moltissimo ai consumatori americani. È altrettanto vero che molti paesi stanno realizzando politiche pubbliche di enorme sostegno all’esportazione.
La vera novità è l’effetto finanziario che questo fenomeno, che ho sopra descritto, ha provocato e che è, nella sua dimensione, del tutto nuovo nell’economia mondiale.
Alcune lezioni però possono essere tratte:
Gli economisti neoclassici, di qualunque impostazione intellettuale, continuano a “perdersi” l’analisi dello stato patrimoniale dell’economia e cioè il fenomeno della crescita del valore degli asset senza che questo generi sviluppo economico significativo, ma solo aumento della ricchezza di coloro che già la posseggono, e più in generale sottovalutano che il prezzo degli asset è strettamente legato ai flussi finanziari e sempre meno al valore intrinseco del bene stesso.
Il predomino del dollaro e del mercato finanziario americano nasce da un intreccio complesso che coinvolge tutte le economie mondiali, e sciogliere questo intreccio potrebbe essere non solo complicato, ma anche costoso, perché potrebbe generare una drastica riduzione del valore dei beni d’investimento e quindi una riduzione della ricchezza con una conseguente recessione.
Da oltre trent’anni la libertà totale di mercato, ed in particolare quella finanziaria, si è imposta plasmando la realtà che abbiamo ora. Gli stati l’hanno solo assecondata ed anzi sono diventati dipendenti dai Mercati per finanziare il loro debito pubblico. Ora gli stati, a partire dagli Usa, stanno tentando di riprendere in mano una parte di potere, ma tutto questo sta avvenendo in un quadro geopolitico competitivo e conflittuale, mentre servirebbe lavorare per definire un nuovo ordine internazionale più equilibrato sia fra i paesi sia fra i diversi strati sociali. Sembra difficile che questa azione concordata possa avvenire e quindi i rischi che siano intraprese strade non adeguate, rischiose e dalle conseguenze imprevedibili, sono elevati.
PS: L’esplosione del debito pubblico americano, ma anche di quello francese - e nei prossimi anni anche tedesco - sta facendo riaprire il dibattito sulla sostenibilità dei debiti pubblici. Il tema era stato a lungo discusso, con grande apprensione, dopo la crisi finanziaria del 2007/2008, quella del debito greco e a seguito delle difficoltà di quello italiano più di dieci anni fa. La storia ha dimostrato che tali timori erano infondati, ma va anche detto che ormai i debiti pubblici sono molto sostenuti dalle banche centrali, che ne hanno comprato una parte per dare liquidità ai mercati finanziari (il cosiddetto Quantitative Easing- “QE”) pensando di rivendere tali acquisti successivamente. In realtà questa seconda fase non si è mai completata e senza l’intervento delle banche centrali i debiti pubblici e i mercati finanziari sono diventati sempre più fragili. Cioè, le banche centrali creano soldi (quindi teoricamente debito) per salvarci dall’eccesso di debito.
Di questo tratterò in una prossima newsletter.
Concludo che ci si potrebbe chiedere come mai il debito pubblico italiano appare così sicuro e si finanzia a tassi quasi inferiori a quello americano. Il perché sta nel fatto che quasi il 40% di esso è nelle mani della Banca Centrale Europea e delle banche commerciali che lo usano come collaterale. Nessuno di loro può “permettersi” di venderlo e questo lo rende assai stabile: a dimostrazione di quanto detto sopra su questa realtà di un sistema sempre più complesso e sempre più “delicato”.