Il tramonto degli ESG, SDG e della sostenibilità nella narrazione occidentale e neoliberista.
Perché è necessaria una nuova narrazione.
Questa mia newsletter propone alcune posizioni che io già sostengo anche pubblicamente da tempo, ma devo la sua sistematizzazione ad alcune fonti che io ritengo meritevoli e che mi sembra sia giusto citare e suggerisco per chi volesse approfondimento questo tema.
Queste sono:
Una conferenza dello storico dell’economia Adam Tooze;
Un libro di Samuel Moyn.
Donald Trump e tutta la nuova amministrazione americana hanno attaccato frontalmente le tematiche legate alla sostenibilità e ai vari modi con cui essa è declinata. Una dimostrazione, che è passata abbastanza sotto silenzio, è stata che nel marzo di quest’anno il governo americano ha tolto la sua adesione al documento delle Nazioni Unite, che proprio 10 anni fa aveva definito, con l’adesione di tutti i paesi, i Sustainable Development Goals (SDGs). Il documento prevedeva 17 obiettivi economici, sociali e culturali, e impegnava gli stati, ma anche le aziende e i privati cittadini a perseguirli.
Gli SDG sono l’approdo finale di un lungo processo iniziato a metà del secolo scorso riguardante lo sviluppo di diritti umani universali. Il libro di Moyn racconta la storia di questa evoluzione: spiega come la teoria dei diritti delle persone sia ormai una lunga vicenda, che ha la sua radice nella rivoluzione francese e in quella americana, che sono nate proprio promuovendo l’uguaglianza di tutti i cittadini, e quindi l’esistenza di alcuni diritti che riguardano ogni essere umano. Tuttavia, sino a pochi decenni fa, questi diritti erano fondamentalmente legati all’autodeterminazione dei popoli e quindi erano legati agli stati nazionali e all’obiettivo che i loro abitanti potessero creare una legislazione adeguata al rispetto e al raggiungimento di questi diritti. Solo a partire dagli anni 70 del secolo scorso essi sono stati interpretati come universali, indipendenti quindi dagli Stati. Sono quindi diventati degli obiettivi - ovviamente condivisibili - ma ampiamente slegati dalla realtà economica e sociale e dai contesti necessari per raggiungerli. Moyn sottolinea come essi siano “L’ultima utopia”, che sostituisce gradualmente la caduta di tutte le ideologie che avevano percorso il XX secolo. Questa è una visione totalmente de-politicizzata del tema (cioè, non afferma mai che questi obiettivi hanno bisogno di politiche pubbliche adeguate) e quindi, sempre lo stesso autore, sottolinea l’errore di averli pensati come diritti totalmente personali, indipendenti dal contesto, e cioè dal fatto che possono essere raggiunti solo riducendo le disuguaglianze e affrontando i problemi sociali. Lo dimostra il fatto che tutti i paesi aderenti alle Nazioni Unite hanno firmato quel documento, senza che poi esso avesse un’influenza concreta; e recentemente le stesse Nazioni Unite hanno ammesso che l’ipotesi di raggiungere quegli obiettivi nel 2030, come era stato previsto, appare del tutto irrealistica.
Gli SDG sono diventati rapidamente uno strumento utilizzato dal mondo del business, e soprattutto dal mondo finanziario: ed è necessario capire il perché.
L’affermazione del neoliberismo e della superiorità del mercato su tutti gli altri attori della società ha coinciso, a partire dagli anni 90, con il totale predominio economico e geopolitico del mondo occidentale, ed in particolare degli Stati Uniti. Tutte le leadership incontrastate hanno bisogno di costruirsi una narrazione che ne giustifichi l’esistenza, e così gradualmente “il mercato”, cioè i suoi principali attori, si sono dati il ruolo non solo di creare sviluppo economico, ma anche di “salvare” il mondo, anche dai problemi da esso creato, mentre avremmo bisogno di un adeguato contraltare nelle nostre società. Così è prima nato il concetto generale della responsabilità sociale delle aziende, che poi è stato coniugato attraverso la nota regolamentazione degli ESG, che ha l’obiettivo di responsabilizzarle sui temi ambientali, sociali e della propria governance. Niente di male in tutto questo, se non fosse rapidamente successo che queste normative sono diventate quasi totalmente delle forme burocratiche ed uno strumento di marketing, appunto per dare alle aziende e ai mercati finanziari un’immagine positiva. Lo dimostra il fatto che vi sono stati numerosi casi in cui si è dimostrato l’uso improprio di questa regolamentazione, e la più ampia e documentata critica è stata fatta da Tariq Fancy, il quale è stato per alcuni il responsabile ESG di Blackrock, la più grande istituzione finanziaria mondiale. Egli giustamente argomenta che le pratiche «sostenibili» toccano le modalità con cui il business è condotto, e non la natura stessa dell’attività economica, che è talvolta la fonte principale di quelle che gli economisti chiamano «esternalità negative», cioè effetti nocivi per la società. La prima e più generale tra queste è l’eccessivo potere del capitale sul lavoro, ma vi sono molti esempi anche nei singoli settori, come, ad esempio, in quello bancario, dove gli istituti di credito tendono ad essere molto attenti alle strategie ESG, ma combattono duramente ogni tentativo di regolamentazione che comporti l’impiego di un maggiore capitale per svolgere l’attività. L’obiettivo di un intervento di questo tipo sarebbe quello di ridurre i rischi di crisi finanziaria nel caso di insolvenza dei crediti, ma trova l’opposizione delle banche e dei loro azionisti, perché avrebbe l’effetto di ridurre anche il ritorno finanziario degli investitori. Un altro caso è quello dei colossi tecnologici, che certo rispettano le regole ESG, ma contrastano con veemenza qualsiasi potenziale attacco alla loro posizione monopolistica. Le politiche ESG sono spesso usate per darsi credibilità, per poi sfuggire a ciò che più conta per l’interesse collettivo.
Infine, l’aspetto più negativo di tutto questo è il fatto che si è creata una prospettiva dominante, la quale promette che il mercato possa essere il principale risolutore dei problemi delle nostre società. Ciò non è vero: lo dimostra il fatto che negli ultimi quarant’anni la disuguaglianza nei paesi occidentali è cresciuta, e che, tra i paesi in via di sviluppo, il principale ed enorme caso di successo, la Cina, è legato ad un forte intervento statale che ha cooperato con l’imprenditorialità privata. Il video di Tooze spiega in dettaglio quest’evoluzione, fino ad arrivare ad affermare in modo provocatorio, ma efficace, che il sistema di etica costruito dal mondo del business è un “Wall Street Consensus”.
La situazione che si è creata contraddice, tra l’altro, le tesi di uno dei grandi fondatori del neoliberismo, Friedman, il quale aveva sostenuto che l’unico obiettivo delle aziende è quello di creare valore per gli azionisti, e che la gestione della società spetta ai singoli cittadini attraverso le istituzioni che si sono dati.
Lo strumento degli SDG. è ampiamente utilizzato dalle élite economico-culturali dalle quali provengono le persone che nella loro attività economica e privata sono totalmente internazionali, ed hanno anche ridotto il senso di appartenenza alla loro nazionalità. Gli SDG sono quindi perfettamente in linea con questo mondo culturale, il quale desidera, talvolta anche sinceramente, il bene collettivo e mondiale, senza però voler rinunciare al predominio del mercato del quale si nutre, ed anzi continuando a lottare per ridurre l’influenza degli Stati e la loro regolamentazione.
Inoltre, tutto questo era stato pensato con l’idea che i paesi in via di sviluppo che si arricchivano sarebbero stati alle regole del gioco costruite dal mondo occidentale. Questa convinzione nasceva dalla enorme supremazia che si era creata dopo la caduta del mondo comunista, ma è stata rapidamente messa in crisi dalla crescita della Cina e di altri paesi asiatici, i quali ci hanno ricordato che ancora non si può separare la ricchezza economica dal potere geopolitico, come per altro ha fatto da sempre il mondo occidentale. Un duro risveglio per questa cultura degli ultimi trent’anni.
Una particolare attenzione va poi data al concetto di “sostenibilità”, parola che ormai è quotidianamente usata, spesso in modo improprio. La sua principale applicazione è giustamente verso il tema del cambiamento climatico: ma anche qui si sta dimostrando che il mercato non può essere l’unico elemento per la soluzione del problema. Le aziende possono certamente contribuire con nuove soluzioni tecnologiche, e lo stanno già facendo; tuttavia, per risolvere il problema delle emissioni di CO2, servono enormi investimenti, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. È stata sviluppata l’ipotesi del “blended finance”, cioè di investimenti privati che si avvalgono anche di garanzie pubbliche: ma, per raggiungere l’obiettivo di una reale riduzione dell’uso dei combustibili fossili, servono investimenti pari al 6% del PIL del mondo occidentale. Un’ipotesi irrealistica che non si sta realizzando: cioè, vi è una totale sconnessione tra la narrativa prospettata e la realtà concreta.
Anche in questo caso vale la pena ricordare che il principale contributo alla riduzione delle emissioni (o meglio, ad una riduzione della loro crescita) lo sta dando la Cina, con le sue soluzioni industriali e con i suoi immensi investimenti pubblici.
Donald Trump sta facendo cadere rapidamente questo racconto e questo sistema di regolamentazione, perché esso era fragile, aldilà di alcuni singoli attori economici che l’avevano perseguita con sincerità. E la forza del messaggio di Trump è anche quello di trovare adesione negli strati sociali più bassi, i quali comprensibilmente rifiutano la visione totalmente internazionale delle élite economiche e culturali, perché essa ha tralasciato gli interessi locali. La sovranità nazionale è tornata al centro della discussione; in parte non è un bene, in quanto riapre divisioni, le accentua e ci pone di fronte a rischi anche militari, ma è la realtà da cui eravamo partiti e che il disegno neoliberista ha tralasciato, sbagliando.
Non dobbiamo pertanto essere preoccupati per la caduta di questo castello di carta che chiunque abbia lavorato - soprattutto nel mondo finanziario - sa che era basato su una profonda ipocrisia, ma dobbiamo esserlo per i problemi che abbiamo davanti: la crisi climatica; le disuguaglianze sociali; i problemi demografici (che porteranno nei prossimi decenni ad avere in Africa quasi il 25% della popolazione mondiale); e infine i possibili rischi derivanti dal duro confronto geopolitico che si è recentemente aperto su vari fronti.
Abbiamo quindi bisogno di nuovi percorsi, assai diversi del recente passato, ma ancora difficili, e ancora da individuare e soprattutto da realizzare. Strade che sappiano utilizzare varie leve in modo congiunto: quella dell’imprenditorialità privata; quella della regolamentazione statale; e quella della partecipazione dei cittadini.
Di tutto questo mi permetterò di parlare nelle successive newsletter non pensando di avere una soluzione, ma con il semplice obiettivo di creare consapevolezza sulle necessità di riflessione che ci attendono.

