È giunta l'ora di stampare moneta?
Perché l'aiuto delle banche centrali è diventato indispensabile per i paesi occidentali.
Questa newsletter ha l’obiettivo di mettere in luce il dilemma di fronte al quale ci troviamo ora, ma per farlo dovrò percorrere in modo molto sintetico gli avvenimenti che negli ultimi ottant’anni ci hanno portato qui.
Le banche centrali sono state create a partire dal XVIII secolo come strumento dei governi per finanziare il debito pubblico (che precedentemente era finanziato da privati) e per gestire l’equilibrio della moneta nazionale.
Nel ‘700 e nell’’800 i debiti pubblici dei paesi europei hanno avuto un andamento molto variabile, con punte elevate che raggiungevano anche i 200% del PIL. Tali picchi erano quasi sempre in relazione con i momenti di guerra, che obbligavano gli Stati a grandi spese militari. Tuttavia, dopo le guerre, il debito poteva gradualmente essere ridotto, poiché gli Stati - in assenza di sistemi di welfare - non avevano molte altre uscite, e quindi potevano, grazie alla tassazione e a un po’ di inflazione, rimettere rapidamente il debito pubblico sotto controllo. Gli Stati Uniti al contrario hanno sempre avuto, sin dalla loro nascita e sino alla crisi del 29, un debito pubblico contenuto, sempre inferiore al 30% del Pil.
La situazione è radicalmente cambiata a partire dal 1945: alla fine della guerra i paesi vincitori, in particolare Stati Uniti e Regno Unito, erano molto indebitati per lo sforzo militare fatto, ma il debito, rispetto al PIL, è rapidamente sceso, a causa del duplice effetto di una elevata inflazione nei primi anni dopo la guerra, e per la rapida crescita economica. Inoltre i governi controllavano totalmente le condizioni del debito ed erano quindi in grado di mantenere i tassi di interesse ad esso collegati artatamente bassi, ciò che tecnicamente viene definito “repressione finanziaria”.
A partire dagli anni 60 la spesa pubblica è continuamente cresciuta in relazione al PIL, in particolare per sostenere la spesa sociale che è passata da essere trascurabile a raggiungere un valore compresa il 25% e il 30% del PIL a seconda dei vari paesi occidentali
Sino al 1990 questa spesa sociale è stata finanziata in modo prevalente dall’incremento delle tasse, poiché la crescita del reddito delle persone ha permesso una maggiore raccolta fiscale, unitamente a sistemi che hanno ampliato la base delle persone e dei redditi imponibili.
Questo è dimostrato dal fatto che all’inizio di questo secolo la grande maggioranza dei paesi occidentali, nonostante l’incremento della spesa pubblica, aveva un debito che non superava il 60% del PIL. Le uniche eccezioni importanti erano il Giappone e l’Italia che già negli anni 90 avevano un debito superiore al 100% e addirittura il Giappone quasi del 200%. Questa situazione derivava dalla grande crisi immobiliare e finanziaria del Giappone degli anni 80 (la quale era stata affrontata con generosissime politiche fiscali del governo); e in Italia da eccessive politiche sociali attuate prevalentemente per favorire il consenso alla Democrazia Cristiana, ma che avevano anche avuto il tacito assenso dell’opposizione.
I cinquant’anni gloriosi successivi alla Seconda guerra mondiale avevano avuto però un’importante discontinuità all’inizio degli anni 80, quando il Neoliberismo si è affermato prima culturalmente - attraverso le posizioni di due importanti economisti come Hayek e Friedman - e poi politicamente con Thatcher e Reagan. Successivamente queste tesi sono state abbracciate da tutti i governi del mondo occidentale, anche appartenenti al mondo del centro sinistra. I punti chiave del neoliberismo economico sono: la libera circolazione dei capitali; la riduzione delle regolamentazioni pubbliche a favore di una più ampia libertà del mercato; e più in generale l’affermazione dei diritti del capitale, cioè degli investitori, rispetto a quelli del lavoro. Lo Stato ha quindi perso molto del suo ruolo di regolatore delle politiche economiche, e da demiurgo della società è passato ad essere uno degli attori inserito nell’economia di mercato, e quindi soggetto al mercato stesso.
In questo quadro economico e culturale è emersa l’idea, realizzata concretamente prima negli Stati Uniti e poi anche in Europa, di rendere le banche centrali indipendenti dal governo e cioè renderle una struttura tecnocratica che fosse soggetta ad un preciso vincolo: quello di non sottoscrivere il debito pubblico emesso dagli Stati. L’obiettivo era quello di togliere agli Stati, cioè ai politici, la libertà di emettere debito pubblico senza confrontarsi con il mercato, poiché gli unici possibili sottoscrittori del nuovo debito diventavano investitori privati.
Inoltre, le banche centrali acquisivano la libertà di decidere i tassi di interesse, quale strumento per combattere l’inflazione che era stata negli anni 70 uno dei grandi motivi della crisi del mondo precedente al neoliberismo e cioè quello dell’economia mista di mercato e delle teorie economiche di Keynes, favorevoli ad un maggiore ruolo dello stato.
È utile ricordare che ciò che ora pare scontato, cioè la totale libertà delle banche di gestire il credito, è un’assoluta novità, poiché fino agli anni 70 la maggioranza delle banche in Europa era di proprietà pubblica, ed anche negli Stati Uniti il governo definiva i tassi di interesse e suddivideva le banche per tipologie di attività, attribuendo ad ogni gruppo di banche la capacità di erogare credito solo ad alcune aree dell’economia.
Gli anni a cavallo tra la fine del passato secolo e questo sono stati il periodo d’oro del neoliberismo e soprattutto erano dominati dalla convinzione che, dopo la caduta del comunismo, tutto il mondo avrebbe abbracciato non solo il capitalismo, ma anche la visione della democrazia del mondo occidentale. Si pensava che i successi dello sviluppo asiatico (che la libertà di mercato aveva promosso attraverso la globalizzazione) si sarebbero diffusi in tutto il mondo, e che quindi il mercato, senza regole pubbliche fosse la miglior soluzione per l’umanità.
Purtroppo, la debolezza di questo disegno si è rapidamente mostrata con la Grande Crisi Finanziaria (GFC) del 2007/2008. Questa crisi, al di là di alcune specificità legate ad eccessi del mondo della finanza, ha messo in luce il vero problema generato dalla libera circolazione dei capitali, e cioè gli effetti degli investimenti dell’enorme ricchezza mondiale nei beni patrimoniali mobiliari e immobiliari esistenti e anche realizzati con un alto grado di leverage, cioè, finanziando l’acquisto con una parte consistente di debito che si affianca al capitale.
Questo ha portato una permanente crescita del valore dei beni patrimoniali, quello che possiamo definire una “bolla permanente”, appunto sostenuta da una domanda elevata di investimento, in buona parte a debito. In questa situazione qualsiasi caduta dei valori patrimoniali genera, come nella GCF, una crisi del debito che sostiene tali investimenti e quindi una fortissima recessione. Di fatto siamo, da alcuni decenni, in una enorme bolla finanziaria, non perché cresce l’economia e PIL, ma perché aumenta il valore dei beni di investimento, generando un incremento della ricchezza che giustamente il Mc Kinsey Institute ha chiamato “paper money” e che giova solo a chi tale ricchezza la possiede già.
E il fenomeno della cosiddetta “ finanziarizzazione“.
La risposta alla GCF è stata in realtà molto efficace, perché Stato e Banche entrali sono intervenuti in parallelo: da un lato i governi incrementando la spesa pubblica per sostenere l’economia, e dall’altro le Banche centrali comprando sul mercato titoli pubblici, con un’operazione definita “quantitative easing “ (QE) per dare una maggiore liquidità alle banche commerciali ed evitare una crisi del credito, ma in realtà anche per sostenere indirettamente la domanda di debito pubblico e facilitarne qui le nuove emissioni.
L’intervento delle banche centrali era stato pensato come temporaneo, e cioè che, appena l’economia si fosse ripresa, questi stessi titoli sarebbero stati rivenduti sul mercato.
Ma ciò non è stato possibile per una serie di motivi:
I debiti pubblici sono continuati a salire, perché la domanda di spesa sociale non può essere contratta, come mostra la situazione francese o inglese attuale: i cittadini non sono pronti a fare i sacrifici su questo terreno, ma non sono neppure disposti a vedere aumentare le tasse, anche perché l’economia negli ultimi vent’anni è molto stagnante in Europa, e quindi i salari crescono pochissimo;
Il drammatico caso del COVID ha imposto un ulteriore intervento pubblico attraverso il debito, e di conseguenza la necessità di nuovi acquisti da parte delle banche centrali di titoli di debito. (Il fatto che essi vengano acquisiti sul mercato e non direttamente è una pura “finzione formale”);
Le banche centrali hanno perfettamente chiaro che qualsiasi perturbazione finanziaria, che faccia scendere il valore dei beni di investimento, o che riduca la liquidità sul mercato, provocherebbe una crisi finanziaria enorme, ed una conseguente recessione. Pertanto, pur tentando talvolta di cedere i titoli in portafoglio, esse sono spesso obbligate a bloccare quest’operazione ed anzi a tornare ad acquisire nuovi titoli, come successo nei giorni scorsi negli Stati Uniti, dove la FED ha comprato 40 miliardi di titoli pubblici, proprio perché ha percepito un rischio di liquidità nel mercato.
Pertanto, oggi FED, BCE e BoE posseggono tra il 15% e il 25% dei titoli pubblici della loro area di riferimento: questa percentuale è abbastanza stabile e non vi sono all’orizzonte delle condizioni perché possa essere ridotta. La Banca centrale giapponese ha in portafoglio addirittura quasi il 50% del debito pubblico, che è straordinariamente alto perché supera il 200% del Pil.
Tuttavia questa azione ha creato un effetto “perverso” perché con il QE le banche centrali creano nuovo denaro: perché pagano gli acquisti, fatti prevalentemente dalle banche commerciali, con riserve bancarie che sono lo strumento con cui le stesse banche commerciali possono emettere debito, e quindi permettono agli istituti di credito di offrire più credito che però si è rivolto prevalentemente a finanziare acquisti di beni patrimoniali esistenti, facendone continuamente crescere il valore.
Di fatto il QE ha aiutato a perpetrare il problema, la bolla speculativa a debito, che ha causato i rischi e i problemi che lo stesso QE voleva curare. Davvero un circolo vizioso.
Tuttavia, il mondo intellettuale, economico e politico liberal democratico sembra non accorgersi di questa situazione e quasi negarla pensando che possa essere considerata ancora temporanea.
Ed è interessante notare come invece sia più apertamente affrontato da quelle che possiamo considerare le due ali estreme di pensiero, riproducendo anche in campo economico ciò che sta avvenendo nella politica generale.
Infatti, l’amministrazione Trump sta cercando di portare sotto il proprio controllo la FED. È significativo questo intervento del ministro statunitense dell’economia Scott Bessent che indica, correttamente, gli effetti perversi del QE e lo fa addirittura citando economisti di “sinistra” e quindi auspica un cambio di ruolo della banca centrale. Non chiarisce però quale possa essere la strategia alternativa per affrontare le cause del problema.
Sull’altro fronte, che potremmo chiamare di “sinistra” emerge una soluzione che da qualche anno viene proposta da un piccolo gruppo di economisti non ortodossi, messo però all’indice dal pensiero economico dominante. La proposta è stata chiamata MMT (Modern Monetary Theory), e prevede che gli Stati attraverso le banche centrali possano “stampare moneta”, saltando quindi l’emissione di debito pubblico.
L’obiettivo che questa ipotesi si propone non è quello di sperperare denaro, quanto di creare le risorse necessarie, soprattutto per mantenere il pieno impiego e cioè per creare una situazione sociale più equilibrata rispetto a quella attuale, facendolo senza incremento del debito. In sostanza offrire risorse all’economia non attraverso le banche, ma direttamente ai cittadini o per gli investimenti pubblici necessari.
Questa tesi incontra due critiche importanti, ma non totalmente fondate:
la creazione di denaro genererebbe inflazione: ma il caso giapponese sembra proprio dimostrare il contrario, visto che l’enorme debito - pur oneroso - non ha affatto creato un aumento dei prezzi. Inoltre, gli ultimi studi stanno mostrando che in una situazione di salari quasi bloccati è difficile che si generi inflazione, a meno che essa non provenga da shock esterni, come è stato nella fase post COVID. Anche su questo terreno si sta quindi palesando una diversa interpretazione, nella situazione attuale, dell’origine dell’inflazione;
questa libertà degli Stati di stampare moneta, senza essere sorvegliati dai mercati, darebbe un immenso potere ai politici per fare azioni rivolte solo a compiacere gli elettori e a mantenere la propria popolarità. Questa è una critica sensata che può essere però in parte smentita, poiché una parte del debito pubblico rimane in mano al risparmio privato; ed in ogni caso c’è da domandarsi se non sia giusto far riprendere ai governi eletti un maggior controllo finanziario rispetto al potere del Mercato.
Il mondo si trova di fronte ad un fenomeno di immense dimensioni, totalmente nuovo, foriero di grandi rischi e generatore di disuguaglianza patrimoniale.
Forse serve uscire dagli schemi consolidati.
Questo strano e complesso intreccio che ho descritto significa che il rischio è molto elevato e che dobbiamo trovare altre strade per organizzare l’intero sistema macroeconomico mondiale; purtroppo, la resistenza di intellettuali, economisti e politici, soprattutto nel cosiddetto mondo liberal democratico, ad un dibattito più onesto intellettualmente e più coraggioso non ci salverà dall’avventatezza dei populisti e ci renderà il futuro ancora più difficile.


La finanziarizzazione e l incremento della disuguaglianza sociale porterà inevitabilmente una forte riduzione dei consumi e della domanda come è evidente in diversi settori di beni superflui (vedi lusso, automotive etc) . Nel medio termine il calo della domanda colpirà’ diversi settori ed un inevitabile forte correzione del sistema economico e finanziario per adattarsi di nuovo su diverse e nuove aspettative di crescita